1. Dall’umanesimo educativo alla scoperta della didattica

Tra il XV e il XVII secolo, in Europa, mutarono notevolmente il modo di concepire l’educazione dei giovani, la funzione sociale dell’istruzione e l’organizzazione didattica della scuola. Attraverso i cambiamenti che si verificarono in quei due secoli gli storici individuano il sorgere della concezione moderna della pedagogia, dell’istruzione e della scuola. Anche nei secoli precedenti, beninteso, erano state vive la sollecitudine educativa e la preoccupazione di assicurare l’istruzione a chi ne aveva bisogno per status (di diritto all’istruzione si comincia a parlare alla fine del 700 per diventare comune nell’800). Sin dall’antichità, infatti, vennero scritti trattati e riflessioni di carattere educativo. Basta pensare agli scritti di Isocrate, Platone, Aristotele, Quintiliano, Agostino e alla ricchissima precettistica medievale intorno alle “buone maniere”, tutti volti alla formazione dell’uomo e alla sua preparazione alla vita adulta.

Quanto alla scuola e alla sua utilità sociale non si possono certamente ignorare alcuni grandi cambiamenti avvenuti prima del ‘400. Tra il XIII e il XIV secolo sorsero le prime Università a Parigi, Bologna, Padova), aumentarono le scuole per rispondere ai bisogni pratici dei mercanti, e i comuni sia in Italia, sia nel nord dell’Europa cominciarono a trasferire il controllo delle scuole dalle mani del clero a quelle dei laici. Sebbene l’esistenza di scuole municipali e di insegnamenti laici costituisse un cambiamento notevole, restavano tuttavia praticamente immutate le prassi didattiche e i contenuti dell’insegnamento. Per assistere alla comparsa e alla diffusione di modelli educativi e scolastici simili a quelli che conosciamo è necessario attendere la fine del XV secolo.

Le trasformazioni dei metodi educativi e degli istituti deputati all’istruzione che si verificarono tra il ‘400 e il ‘600 furono ben più radicali, tanto che per descriverli lo storico inglese Lawrence Stone è ricorso alla metafora della “rivoluzione educativa”. Secondo Stone, tra il 1560 e il 1640, l’Inghilterra, ad esempio, avrebbe raggiunto un livello di alfabetizzazione che avrebbe conosciuto nuovamente soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale.

La scoperta del valore dell’educazione segnò non soltanto l’inizio di una nuova fase della storia della scuola e della pedagogia, ma decretò soprattutto la fine di quella che Philippe Ariès ha definito “un’età senza educazione”. Lo storico francese era convinto che, a partire dal ‘400-‘500, si sia cominciato a guardare all’infanzia e in genere alle fasi della vita umana precedenti a quella adulta con un’attenzione e una premura nuove e soprattutto con una preoccupazione educativa che non esisteva nei secoli anteriori. Si trattò certamente di un fenomeno lento e graduale, che nelle prime fasi fu circoscritto ai ceti più agiati e istruiti, ma che poco alla volta interessò porzioni sempre più ampie della popolazione europea.

Quali furono, dunque, i fattori che innescarono la cosiddetta “rivoluzione educativa”? Ne possiamo individuare schematicamente quattro:

1. L’umanesimo educativo. Il primo fattore è legato al sorgere, nel XV secolo, prima in Italia (ad esempio con Leon Battista Alberti, Guarino Guarini, Vittorino da Feltre) e poi nel resto d’Europa (Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro, Lutero, Juan Luis Vives), dell’Umanesimo, e in particolare della sua vocazione educativa, incentrata sugli studia humanitatis. Alle origini dell’educazione umanistica stava il proposito di formare un uomo nel quale sapere e buon gusto, carattere e cortesia fossero aspetti di un’unica e armonica realtà. Uno sguardo più curioso sul mondo ed un alto concetto della “dignità dell’uomo” si tradussero in una formazione comune, di natura letteraria, filosofica e storica, preliminare a qualsiasi successiva specializzazione professionale. Lo studio delle lingue classiche e delle letterature antiche, al pari degli insegnamenti morali degli autori greci e romani, erano giudicati un sussidio indispensabile per acquisire un’humanitas piena e matura. Saper padroneggiare l’uso della parola (essere cioè esperti nella retorica e nell’eloquenza), ma al tempo stesso “saper anche andare al di là delle parole” (Erasmo) per cogliere i sensi remoti della verità, voleva dire essere persone che noi oggi diremmo competenti e capaci di senso critico, ma anche sagge e timorate di Dio. La formazione dell’”uomo colto e morale”, inizialmente prerogativa delle corti e dei ceti aristocratici italiani, a contatto con la cultura dei Paesi del nord Europa, si arricchì di una nuova spiritualità, volta alla creazione di un Cristianesimo vissuto in modo autentico, libero dalle superstizioni e dalle corruzioni del tempo.
Diffondere
questo modello educativo significava compiere una vera e propria renovatio mundi, cioè promuovere un modello di societas christiana autenticamente ispirata ai valori della pietas (capacità di perdono, misericordia) e della charitas (amore verso Dio e verso gli altri).

2. La ricerca di un metodo didattico efficace. Tra ‘400 e ‘500 si moltiplicarono gli sforzi di uomini di cultura assoldati come precettori nelle corti principesche, di semplici maestri e di organizzazioni religiose per migliorare le pratiche dell’insegnamento. Se il cuore del rinnovamento “umanistico” della cultura educativa fu l’Italia, la questione del metodo fu approfondita soprattutto nel nord dell’Europa. All’idea di scuola affidata alla personalità geniale – magari eccezionale - del maestro, fece da contraltare il bisogno di un modello ben definito e facilmente riproducibile: la scuola e l’insegnamento considerati come un prodotto collaudato dall’esperienza collettiva più che come opera d’arte di un singolo docente.

 3. L’invenzione della stampa. Non va, poi, sottovalutata la novità della generalizzazione della stampa a caratteri mobili e del libro e, in specie, del libro vade mecum e cioè abbastanza piccolo da potersi agevolmente maneggiare. Prima della fine del ‘400, quando apparvero i primi testi “tascabili”, i libri erano generalmente di grandi dimensioni, e dovevano spesso essere consultati appoggiandosi su appositi tavoli o leggii. Le occasioni di incontro con la scrittura e la lettura aumentarono sensibilmente proprio grazie all’introduzione del torchio da stampa, che rese estremamente più semplice e veloce la riproduzione di scritti, incrementandone la circolazione. Tale innovazione determinò, tra l’altro, la crescita di interesse per l’alfabetizzazione, sino a quel momento molto poco apprezzata non solo tra i ceti meno abbienti, ma anche tra quelli agiati, che avevano scarse occasioni di venire a contatto con un testo. Per questo, soprattutto all’interno di certi contesti professionali e sociali, crebbe il bisogno di istruzione. La produzione di libri maneggevoli rappresentò una spinta poderosa alla diffusione della cultura e la novità entrò anche nelle scuole. Intellettuali e studiosi cominciarono a predisporre anche manuali destinati all’uso scolastico (Erasmo, Vives). La spiegazione del maestro e la ripetizione della lezione basata su un unico libro (il libro del maestro) cominciò ad essere integrata dalla lettura del testo ad uso personale. Naturalmente l’evoluzione dell’uso del libro fu molto lenta e interessò in una prima fase soprattutto gli studenti attratti dalla fama delle Università più prestigiose. Ma il libro di studio personale era destinato a diventare un requisito fondamentale anche nella vita scolastica dei collegi e, più in là nel tempo, anche delle scuole primarie.

4. La manifestazione degli affetti familiari. Una delle cause più generali (e anche di più lunga durata) va individuata alla graduale diffusione di una nuova sensibilità affettiva familiare, che si manifestò, tra l’altro, in un maggior investimento emotivo ed economico da parte dei genitori nei confronti della prole. A questo riguardo sono fondamentali le ricerche di Philippe Ariès, condotte perlopiù sulla base di fonti quali dipinti, ritratti e stampe rappresentanti scene di vita domestica, diari e registri delle famiglie impegnate in attività commerciali. La documentazione iconografica analizzata da Ariès dimostra come, tra il ‘400 e il ‘700, la famiglia si appropriò sempre più del compito di educare i suoi membri, sino ad allora svolto dalla collettività. La lontananza fisica e affettiva che i genitori mantennero per secoli nei confronti dei propri figli aveva soprattutto la funzione di garantire un indispensabile distacco emotivo e sentimentale. In un’epoca in cui la mortalità infantile era ancora elevatissima, affezionarsi a un bambino significava spesso condannarsi al dolore di perderlo prima di averne completato lo svezzamento. A mano a mano che crebbe la sensibilità privata verso i figli, aumentò anche il desiderio di fornire loro gli strumenti necessari per vivere nel mondo. La manifestazione più evidente della mutata sensibilità genitoriale nei confronti dei figli è offerta dall’alta affluenza nei collegi, tra ‘600 e ‘700, sempre più diffusi capillarmente sul territorio per rispondere alle crescenti richieste di scuola da parte delle famiglie (ormai non più soltanto quelle aristocratiche e della alta borghesia, ma anche della media borghesia).

2. La “rivoluzione scolastica” tra nascita degli Stati moderni e riforma religiosa

Abbiamo parlato sino ad ora di “rivoluzione educativa”. In realtà, sarebbe forse più corretto parlare di “rivoluzione scolastica” o di “rivoluzione dell’istruzione” per indicare i mutamenti avvenuti nella cultura pedagogica europea all’inizio dell’età moderna. L’interesse per l’educazione si concretizzò, infatti, soprattutto nell’accrescimento della domanda e dell’offerta di istruzione, le quali determinarono a loro volta la nascita della scuola così come siamo abituati a concepirla ancora oggi. Indicare nell’istruzione, piuttosto che nell’educazione, la principale scoperta dell’Europa moderna ci sembra corretto per due motivi: il primo è che dell’insieme complesso di teorie e prassi da cui è composta l’educazione, che, in senso moderno, comprende tra le altre le pratiche di puericultura e d’igiene, l’inserimento sociale e la rieducazione, quella su cui si concentrarono le riflessioni e le sperimentazioni più innovative fu la trasmissione di contenuti formali, dall’alfabeto alle lingue classiche, dal catechismo alla filosofia; il secondo motivo è che, tra la fine del ‘400 e i primi decenni del ‘700, il termine “educare” venne impiegato in prevalenza come sinonimo di “istruire”, a dimostrazione del fatto che proprio all’insegnamento era deputato il mandato di formare gli adulti del futuro.

Quella in uso nei primi secoli dell’età moderna nelle scuole degli umanisti così come in quelle rette da Ordini religiosi, fu, quindi, un’accezione alquanto limitata di educazione, intesa soprattutto come adeguamento ad un sistema di norme e regole di vita etiche e sociali ben precise e collaudate (educazione come “disciplinamento” dell’intelligenza e del corpo). Educare significava introdurre quanto più rapidamente ed efficacemente possibile il bambino nella vita degli adulti, in modo che ciascun individuo conoscesse i doveri del proprio ceto, li accettasse e li attuasse scrupolosamente. In questo contesto l’educazione ebbe per secoli anche la funzione di garantire la riproduzione del patrimonio economico e culturale della famiglia. I valori educativi più apprezzati erano, perciò, quelli dell’obbedienza, dei buoni costumi e dell’esempio offerto dagli educatori, a cui era attribuita una forte e indiscussa autorità.
Il documento più significativo di questo modo di intendere l’educazione è rappresentato dall’opera di Silvio Antoniano (1540-1603), Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli, completata intorno al 1582, pochi decenni dopo la conclusione del Concilio di Trento nel quadro della Riforma cattolica. Partendo dal presupposto della “grande importanza di allevare cristianamente i figliuoli”, l’Antoniano fornisce in primo luogo ai padri le indicazioni necessarie per raggiungere questo scopo: una cura educativa premurosa e costante, la preghiera e l’esercizio della carità (elemosine e opere di misericordia), la correzione precoce delle inclinazioni cattive, la giusta severità sempre accompagnata dall’amorevolezza, la sobrietà della vita familiare, la ricerca di una scuola con buoni maestri.
In questa parte del lavoro dell’Antoniano si ritrovano varie riflessioni che, pur entro un contesto semantico e valoriale rigidamente legato alla tradizione, riflettono una viva sensibilità educativa che va nel senso di quella “scoperta dell’infanzia” destinata a manifestarsi in modo sempre più significativo nel ‘600-‘700. I padri e le madri – è già interessante notare come la responsabilità educativa sia attribuita ad entrambi i genitori – sono invitati ad occuparsi dei figli, invece di affidarli a domestici e badanti, com’era d’uso all’epoca (“non rincresca al padre di famiglia, anzi prenda diletto e gusto di fare osservazione sopra il naturale carattere e l’indole del figliuolo”), a non eccedere nelle punizioni (“le battiture sono come una medicina e come tale deve essere data a tempo e con misura”), a cercare una scuola che sia frequentata volentieri dai figli (“il savio maestro cerchi quanto più può di spianare la via malagevole del sapere, adattandosi con pazienza alla capacità puerile”).

Si tratta di indicatori che segnalano non solo un maggior rispetto per i ragazzi, ma anche una sensibilità educativa più avvertita e premurosa, quella che nel linguaggio del tempo era definita l’”amorevolezza”, pur sempre posta entro un quadro nel quale prevaleva l’autorità sulla libertà. Il principio, oggi molto attuale e quasi scontato, della “realizzazione personale” è una categoria pedagogica che compare, circondata peraltro da molte diffidenze, soltanto nella seconda metà del ‘700, per essere comunemente accettata, almeno in campo teorico, nel secondo ‘800. Certamente, sin dal ‘500, non mancarono le eccezioni, ovvero i tentativi di introdurre significati e modelli educativi più complessi e articolati, per lo più come reazione alla pedanteria dei maestri e all’esagerazione dei metodi correttivi. Tuttavia, le riflessioni di Rabelais, Erasmo e Tommaso Moro e, un poco più tardi, di Comenio, Calasanzio e Pascal ebbero principalmente una funzione di stimolo culturale, rimanendo, però, per lungo tempo vere e proprie utopie, in attesa che si diffondesse nel sentire comune un ideale educativo meno immediatamente funzionale alle consuetudini sociali e al successo dell’individuo e della sua famiglia. Seppur fiduciosi nella natura umana, anche gli uomini del ‘500-‘600 finirono per risolvere buona parte dell’educazione caldeggiata dagli umanisti nello studio e nell’istruzione formale, che poco o nessuno spazio concedevano al libero e armonico sviluppo delle potenzialità umane.
Non bisogna dimenticare che anche la possibilità di frequentare una scuola vera e propria rimase per lungo tempo un miraggio per la maggior parte della popolazione. Infatti, sebbene tra XVI e XVII secolo si moltiplicassero, specie nelle città più grandi, le scuole primarie e secondarie, le modalità per venire a contatto con l’istruzione restarono assai varie, dal precettore al catechismo in parrocchia, dal maestro stagionale di villaggio a quello occasionale nel retro di una bottega; per di più, sino a ‘800 inoltrato, rimase acceso il dibattito tra i fautori dell’istruzione pubblica, impartita in comune ad altri condiscepoli all’interno della scuola, e i sostenitori di quella privata, ricevuta singolarmente in famiglia per mezzo di precettori. Per questi motivi, a differenza di quanto avviene oggi, per secoli i termini “istruzione” e “alfabetizzazione” coincisero solo in parte con “scuola”.
Nel rintracciare le cause della “rivoluzione scolastica” non tutti gli storici attribuiscono la stessa importanza allo scontro tra mondo cattolico e mondo protestante, ma preferiscono piuttosto concentrarsi sulle innovazioni apportate dalla cultura umanistica. L’educazione umanistica, ispirata alla riscoperta della classicità, fondata sull’apprendimento del latino e del greco conquistò in breve tempo l’élite colta della società europea, rendendola diffidente nei confronti dell’istruzione impartita dal clero e provocando di conseguenza un distacco sempre più ampio tra la formazione dei laici, ispirata ai modelli di Roma e della Grecia classiche, e quella dei chierici, ancorata alla teologia. Fu, infatti, grazie agli umanisti che nei piani di studio delle scuole dell’Europa moderna entrarono, per non uscirvi praticamente più, i classici latini e greci, impartiti con l’ausilio di una rigorosa disciplina.

 3. Il modello educativo collegiale

Il modello educativo degli umanisti, ereditato, rielaborato e diffuso dai collegi retti dagli Ordini religiosi nel mondo cattolico e dalle comunità protestanti nei Paesi riformati, potenziati nelle finalità spirituali e devozionali, ebbe tanta fortuna da rappresentare per secoli lo strumento formativo per eccellenza dei ceti che oggi diciamo “dirigenti” (in primo luogo i nobili, ma anche i borghesi in cerca di affermazione sociale). Il collegio – dalla parola latina collegium, gruppo di persone unite fra loro da vincoli e interessi comuni – ha un’antica storia. Questa istituzione educativa sorse nelle prime Università medievali del XIII secolo ed inizialmente si configurava semplicemente come un convitto nel quale gli studenti fuori sede erano ospitati. In seguito, i collegi si diedero regolamenti e si costituirono in comunità religiose o laiche spesso finanziate da qualche benefattore. Oltre ad essere luoghi di accoglienza, con il tempo i collegi cominciarono a diventare anche sedi di apprendimento di quelle nozioni preliminari ritenute indispensabili per una buona riuscita universitaria. In questo modo, gli studenti più anziani ed esperti introducevano i più giovani o meno esperti al sapere. L’ulteriore evoluzione del collegio fu segnata dalla sua autosufficienza rispetto al sistema universitario, diventando l’equivalente di quello che è oggi la nostra scuola secondaria.
            Certo, forse Eugenio Garin non aveva torto quando accusava le rationes (e cioè le regole pedagogiche e didattiche che ordinavano la vita dei collegi) di essere esempi sbiaditi dei brillanti e innovativi programmi didattici degli umanisti del secolo precedente. È infatti vero che, presso i gesuiti, così come presso i barnabiti e gli scolopi, il latino, pur continuando a rappresentare la materia cardine dell’insegnamento, non costituiva più il mezzo per impadronirsi dello spirito dei classici, ma era ripiegata sulla comprensione dei testi sacri e finalizzata all’accesso alle carriere più prestigiose (tutte rigorosamente esercitate in latino). Tuttavia, non si può trascurare che i collegi, mentre cercavano di rendere i loro allievi partecipi di una cultura nobiliare adeguata alla società che avrebbero frequentato, miravano a formare altrettanti buoni cristiani, in grado non soltanto di rispettare la religione e la Chiesa, ma anche di svolgere opera di apostolato con il proprio esempio, oltre che di salvare la propria anima.
            L’uomo che intendevano formare era prima di tutto un uomo di fede, cattolico, luterano o calvinista che fosse (i collegi protestanti non si differenziavano sul piano organizzativo e didattico da quelli cattolici). La convinzione da cui muovevano era che un’istruzione ispirata ai precetti delle Sacre Scritture fosse l’unica che da un lato poteva condurre l’uomo alla sua vera realizzazione, ovvero la salvezza eterna, dall’altro, potesse farne un cittadino, inteso come suddito, fedele e capace. Entro questa cornice di fondo si poneva il sincero interesse per la diffusione della cultura e dell’istruzione. Esse, però, erano intese in senso alquanto strumentale, ovvero come necessarie a sostenere la formazione cristiana dell’individuo e a sorreggerne l’impegno nel mondo. Questo non fu un carattere tipico dell’istruzione impartita nelle scuole confessionali. Ogni modello educativo (anche quello, per esempio, militare) conservò, per tutta l’età moderna e ancora per buona parte dei secoli successivi, un carattere fortemente funzionale, vale a dire strettamente commisurato con gli obiettivi sociali e pubblici che si intendevano perseguire. Questo era vero per i rampolli delle famiglie agiate, nobili o meno, ma era altrettanto vero per i futuri sovrani, formati non con l’obiettivo di farne grandi uomini, ma valorosi condottieri o abili amministratori, oltre che garanti della fede dei loro popoli.
            La preoccupazione principale era quella di offrire ai figli una formazione che permettesse loro di stabilire un rapporto corretto con il proprio contesto sociale e di perpetuare i beni ereditati. Poiché per le classi sociali che potevano permettersi un’istruzione l’obiettivo primario era di salvaguardare la fortuna familiare, per secoli venne applicata la norma del maggiorascato, che attribuiva ad uno solo dei figli il compito di tramandare il patrimonio, riservando agli altri, sin dalla nascita, minori cure e ben più modeste fortune. Inoltre, dato che per lungo tempo l’educazione e soprattutto l’allevamento della prole continuarono ad essere reputate occupazioni di scarso interesse e rendimento, furono delegate a figure estranee al nucleo familiare, quali la balia e il precettore.
            Il modello su cui venne plasmata l’istruzione collegiale (e cioè pre-universitaria) fu duplice: da un lato, ci si rifece all’esperienza delle scuole umanistiche, specialmente per quanto riguardava i contenuti dell’insegnamento e la mutuazione dell’internato; dall’altro, venne utilizzata anche per l’istruzione dei laici la struttura organizzativa e disciplinare della formazione dei chierici introdotta dal Concilio di Trento, ovvero il seminario.
            Quella del seminario non fu un’invenzione dei prelati riuniti a Trento. Essi conoscevano la sperimentazione compiuta proprio in quegli anni a Verona da Gian Matteo Giberti nella Schola accolytorum, la quale aveva ispirato le poco più tarde riforme proclamate dal sinodo londinese diretto dal cardinale Reginald Pole, che nel 1556 aveva previsto l’istituzione, presso le chiese cattedrali, di collegi volti a istruire i futuri preti nell’“ecclesiastica disciplina et doctrina”. Non a caso, gli atti del sinodo vennero discussi a Trento per intervento del cardinale Morone, che aveva provveduto a darli alle stampe con l’approvazione di papa Pio IV.
                Il principio che ispirò la riforma era di dotare i sacerdoti della preparazione sufficiente a occuparsi in maniera soddisfacente della cura delle anime che, pur rappresentando una delle mansioni più importanti del clero secolare, non era oggetto di un’apposita formazione, ma era in gran parte affidata all’opera apostolica svolta dagli ordini mendicanti. In seguito alle determinazioni conciliari, i seminari cominciarono a diffondersi in tutta Europa. Sebbene mancasse un modello formativo comune e il livello dell’istruzione impartita nei singoli istituti variasse notevolmente, la preparazione degli uomini di chiesa conobbe un indiscutibile miglioramento. Ogni diocesi fu tenuta ad avere un seminario, la cui gestione dipendeva direttamente dal vescovo (come era avvenuto nel caso di Giberti a Verona), il quale era libero di affidarlo a preti secolari oppure a qualche ordine religioso nato durante la Controriforma, come i gesuiti o i barnabiti.
                    Contemporaneamente alla scuola per il clero vide la luce anche l’istituzione a cui sarebbe stata deputata per tutta l’età moderna la formazione dei laici: per l’appunto il collegio. Da sempre le scuole per ecclesiastici erano frequentate anche da secolari desiderosi soltanto di istruirsi e privi di ogni vocazione, i quali abbandonavano gli studi senza prendere i voti. Poiché con le riforme tridentine questo tipo di studenti venne escluso dai seminari, era necessario trovare nuove soluzioni per permettere di istruirsi anche a coloro che non intendevano abbracciare la vita clericale. Per questo motivo la nascita del collegio fu pressoché simultanea a quella del seminario e i due istituti addirittura si influenzarono reciprocamente. Tale influenza risulta evidente sin dal nome, in quanto i collegi vennero definiti seminaria nobilium. I punti di contatto andavano ben oltre la denominazione: tanto il seminario quanto il collegio imponevano ai loro ospiti la residenza all’interno dell’istituzione, erano fondati su un’inflessibile disciplina e un’altrettanto rigida gerarchia, e fornivano un’educazione di stampo umanistico e religioso, basata sulla conoscenza del latino che, come abbiamo già ricordato, costituiva il requisito primo per essere considerato un uomo colto.
                Se molteplici furono le relazioni e gli scambi tra le due organizzazioni formative, ciò fu dovuto in gran parte al fatto che l’una e l’altra vennero spesso affidate a una direzione comune. Essa fu per lo più assegnata, in campo cattolico, alle congregazioni religiose nate in quello stesso periodo con l’esplicito obiettivo di contrastare il dilagare della Riforma protestante. Dopo aver acquisito in breve tempo all’interno dei propri noviziati fama di abili insegnanti, oltre che di tenaci evangelizzatori, barnabiti, scolopi, somaschi, e soprattutto gesuiti vennero chiamati a dirigere numerosi seminari, mentre le autorità comunali e i notabili li invitavano, a loro volta, con ingenti donazioni a fondare collegi nelle città di tutta Europa. Fu così che i seminaria nobilium conobbero una straordinaria diffusione, soprattutto ad opera della Compagnia di Gesù, l’ordine che legò più strettamente la propria attività apostolica all’insegnamento e alla scuola. La Ratio studiorum gesuitica (cioè il regolamento delle scuole dei gesuiti) – che dopo una serie di revisioni e aggiornamenti ebbe la sua formulazione definitiva nel 1599 – divenne, infatti, il modello teorico e empirico a cui si ispirarono sia le altre congregazioni religiose dedite all’istruzione sia le confraternite di preti secolari.
                Essa era fondata sull’insegnamento di materie utili per fare carriera nelle pubbliche amministrazioni, nel clero e nel foro, ovvero in tutte le professioni in cui era necessario padroneggiare la parola. Non a caso, il curriculum gesuitico, al pari delle rationes di tutti gli altri Ordini religiosi contro-riformati, era incentrato sulla retorica e sull’apprendimento delle lingue classiche, a cui facevano da corollario la filosofia e, naturalmente, la religione. Sin dalla loro comparsa e sino a ‘700 inoltrato, i collegi della Compagnia di Gesù raccolsero ampi consensi, in quanto seppero concepire e attuare un programma educativo bel collaudato ed espressamente asservito al successo sociale e professionale di matrice aristocratica. Tuttavia, le scuole gesuitiche, al pari degli altri collegi retti da ordini religiosi, non furono aperti solo alla nobiltà, ma accolsero alunni provenienti da tutti i ceti sociali, salvo quelli più poveri, per i quali funzionavano soltanto le scuole di carità. A fare la differenza interveniva, però, un fattore importante, ovvero il numero di anni che i ragazzi potevano dedicare alla propria formazione, variabile che dipendeva ovviamente dalle risorse economiche di cui disponevano le loro famiglie. In effetti, l’istruzione offerta dai collegi gesuitici era quasi completamente gratuita. Se, infatti, i pensionati gestiti dall’Ordine non erano certamente per tutti, dato che avevano spesso costi proibitivi sebbene riservassero un certo numero di posti agli studenti meno agiati, i collegi della Compagnia erano, invece, davvero a buon mercato, specie se paragonati a quelli di altri ordini religiosi o retti da preti secolari. Essi, infatti, godevano di patrimoni cospicui e di molteplice natura (comunale, demaniale, ecclesiastica, proveniente da donazioni private) e quindi sicuri, che i gesuiti avevano imposto come requisito imprescindibile sin dalla loro apertura proprio per garantire la gratuità dell’insegnamento.
                    Ma il vero problema per i giovani meno abbienti era quello di non essere costretti a contribuire al reddito familiare sin dalla più tenera età, dovendo ritardare ad oltranza l’ingresso a scuola, oppure venendo costretti a frequentarla a singhiozzo. Per questo motivo, nei collegi di Antico Regime, così come nelle scuole parrocchiali, non era infrequente trovare gomito a gomito bambini in età scolare e giovani adulti alla loro prima esperienza di alfabetizzazione. E per la stessa ragione gli studenti meno agiati frequentavano le aule scolastiche con cadenze stagionali, alternando lo studio al lavoro. Più di qualsiasi altra, però, l’educazione ignaziana contribuì a fissare un modello ideale di “persona per bene” a cui potevano e dovevano affidare la propria prole tutte le famiglie che volevano garantirle una speranza di successo. Per lungo tempo, quindi, il seminarium nobilium gesuitico rimase l’istituzione scolastica a cui le famiglie aristocratiche o anche semplicemente benestanti affidarono l’educazione della loro prole, certi di avviarla così a un sicuro inserimento all’interno della società.
                        Grazie a questa sua caratteristica, il collegio rappresentò indiscutibilmente uno dei mezzi più fortunati di evangelizzazione o di ri-evangelizzazione della società, d’importanza pari – se non superiore – all’Inquisizione e alle missioni. Ben consapevoli della forza educativa e culturale insita nel collegio, i gesuiti ne esportarono il modello in tutte le parti del mondo in cui impiantarono le missioni dell’Ordine.
                    L’istruzione collegiale ebbe grande fortuna anche nel mondo protestante, che elaborò un modello formativo in tutto e per tutto simile a quello cattolico. Un ruolo di primo piano, in tal senso, va senza dubbio attribuito a Filippo Melantone (1497-1560), il quale, riprendendo il messaggio di Martin Lutero, denunciò il deplorevole stato in cui versavano le scuole della Sassonia in qualità, diremmo oggi, di ispettore, e formulò una articolata proposta di riforma. Melantone era a sua volta imbevuto dei princìpi dell’Umanesimo e per questo anch’egli previde come lingua d’obbligo per ogni ordine di scuola il latino. Inoltre, ribadì la necessità di diffondere il più possibile l’istruzione, al fine di avvicinare il popolo alla conoscenza delle Sacre Scritture. I precetti di Melantone vennero messi con solerzia in pratica da Johan Sturm (1507-1589), il quale fondò e diresse per oltre quarant’anni a Strasburgo un gymnasium, il cui curriculum di studi era incentrato, al pari di quello dei collegi gesuiti, sui classici pagani e cristiani e su una rigorosa formazione religiosa. Intanto, a Ginevra, Calvino aveva aperto nel 1559 il suo collegio che, con quello dello Sturm, rappresentò il modello di riferimento per l’educazione nei Paesi riformati (luterani e calvinisti).
                    La battaglia scolastica ingaggiata tra i collegi dei gesuiti e quelli protestanti, specie nelle zone di confine tra le due aree d’influenza religiosa, ebbe il merito di moltiplicare le opportunità di istruzione e di coinvolgere un numero crescente di giovani. La diffusione delle scuole in ogni parte d’Europa, e specialmente nelle città, determinò un notevole incremento della popolazione studentesca. Se è vero, infatti, che l’istruzione rimase privilegio di pochi, è altrettanto vero che la cultura uscì dal ristretto ambito dei monasteri e delle gerarchie ecclesiastiche per divenire patrimonio di strati sempre più ampi delle élites laiche. Mentre nel corso del Medioevo l’istruzione era rimasta un privilegio di ristretti gruppi di ecclesiastici, perlopiù chiusi in monasteri isolati dal resto del mondo, e pochissimi erano i laici che venivano iniziati alla lettura e alla scrittura, l’età moderna vide aumentare sensibilmente la popolazione studentesca. A beneficiare dell’incremento delle possibilità formative furono però soprattutto i ceti benestanti, al cui interno venivano reclutate le élites
dell’amministrazione, dell’esercito e della politica. Non soltanto i nobili, quindi, ma anche i borghesi, che desideravano completare la propria ascesa economica per mezzo di un’educazione che permettesse loro di essere accettati all’interno di un mondo di cui era indispensabile conoscere e condividere ideali e stili di vita.
                    Non si trattò certo di un’evoluzione lineare; anzi, come sembrano dimostrare tutte le indagini sui singoli collegi e istituti, la conquista dell’istruzione da parte delle élites avvenne non senza prolungate interruzioni, con alti e bassi, seguendo l’evolversi della situazione politica ed economica dei diversi Paesi. Lo dimostra anche il fatto che tra gli storici manca l’accordo circa la provenienza sociale degli allievi dei seminaria nobilium. Posizioni come quelle del gesuita François de Dainville che, sulla base dei dati raccolti dai registri scolastici dell’epoca, sosteneva che tra gli scolari non mancavano i rappresentanti della piccola e media borghesia, sembrerebbero almeno in parte smentite dalle successive indagini di Walter Frijoff e Dominique Julia, che hanno messo in luce che gli allievi di estrazione più umile avevano possibilità assai scarse di terminare con successo gli studi, insistendo sulla funzione di controllo della mobilità sociale esercitata dai collegi.
                       Un ulteriore effetto della rivoluzione educativa è riscontrabile nei metodi didattici e specialmente nei libri per la scuola, i quali conobbero per la prima volta una graduale specializzazione. Infatti, se fino al Cinquecento erano stati usati quasi esclusivamente testi che non erano stati composti appositamente per l’istruzione, con l’eccezione dei manuali di teologia, gli umanisti, oltre a ideare nuove modalità didattiche, produssero libri esplicitamente destinati alla scuola. Ciò non determinò comunque la scomparsa delle opere usate tradizionalmente per l’insegnamento, quali i catechismi e le raccolte di massime, che anzi continuarono ad essere utilizzate nelle scuole e nell’istruzione popolare ancora per tutto l’Ottocento.

Ultime modifiche: mercoledì, 22 gennaio 2014, 11:40