LA DIVERSIFICAZIONE DEI MODELLI EDUCATIVI

L’educazione viene comunemente considerata come l’insieme delle tecniche volte a trasmettere il patrimonio culturale di una società alle generazioni future.
In questo senso, nel Settecento, per la prima volta, la società diventa più complessa e eterogenea, nascono più modelli culturali, che danno vita a differenti modelli esistenziali e quindi anche a diversi stili educativi.

Già nel Cinquecento erano certamente esistiti differenti modelli culturali, ma i seminaria nobilium, ovvero i collegi, al pari dei seminari per il clero, avevano raccolto il modello educativo degli umanisti, che essi avevano ereditato dalla classicità greca e romana, cristianizzandolo.
I valori a cui facevano riferimento erano in buona parte comuni, e la visione del mondo tra i due schieramenti, laici e cattolici, non era affatto inconciliabile. Invece, nel Settecento la dicotomia tra Illuministi e mondo cattolico si allarga e il confronto viene sorretto a stento soltanto da pochi, infaticabili, mediatori: per il resto, lo scontro ormai aperto e la rottura difficilmente sanabile.

L’illuminismo propone, infatti, una visione del mondo più laica, quando non antireligiosa, opposta a quella tradizionale della Chiesa. Non vuole un modello esistenziale, e quindi educativo, prestabilito. In campo pedagogico, quindi, c’è spazio sia per la ragione, sia per i sentimenti, sia per l’intuizione, mentre perde importanza la fede, che resta, invece, al centro, del modello educativo cattolico e gesuitico in particolare. Per di più, nel Settecento, per la prima volta nella storia, lo Stato decide di occuparsi di scuola e compie il primo passo verso la secolarizzazione dell’istruzione della gioventù.

È l’inizio di un lungo percorso, che, attraverso aspre difficoltà e lotte non ancora del tutto sopite, prosegue ancora oggi. In questo processo di statalizzazione del sistema educativo i gesuiti risultano particolarmente scomodi, sia perché controllano buona parte delle scuole, sia perché offrono un modello fortemente religioso e soprattutto fedele alla Chiesa di Roma.
Il modello giansenistico degli oratoriani, al pari di quello illuministico, risulta più utile per le monarchie europee. Ciò spiega, tra l’altro, anche la radicale opposizione del Chiesa di Roma alla cultura dei Lumi, individuata come la vera nemica del cattolicesimo, molto più pericolosa del giansenismo o della religione protestante, con cui pure prosegue un acceso confronto.
Così, le scuole gestite da religiosi, che fino a quel momento avevano rappresentato l’ortodossia educativa, gestendo in regime di monopolio il sistema scolastico europeo, gradualmente devono imparare a fare i conti con una concorrenza accanita e competente, oltre che molto alla moda nella società della fine del Settecento. Addirittura, con la soppressione dei gesuiti nel 1773 e soprattutto con la Rivoluzione francese, quello cattolico diviene in alcuni Paesi, e specialmente in Francia, un modello educativo di minoranza, alternativo a quello ormai ufficialmente adottato dallo Stato.

Per reggere la sfida, la Chiesa mutua numerosi aspetti dell’educazione illuminista, nel tentativo sia di aggiornare i propri metodi, sia di offrire un modello appetibile per l’opinione pubblica. Ciò è vero sino alla Restaurazione, quando invece i cattolici radicalizzano la propria diversità, forti della momentanea vittoria sul mondo dell’Illuminismo e della Rivoluzione. Quella dell’intransigenza sarà, tuttavia, una posizione fallimentare, in quanto finirà presto per portare la Chiesa a scontrarsi con lo Stato, ormai saldamente laicizzato, il quale avrà nuovamente interesse a fare leva sulla concorrenza tra modelli educativi e culturali diversi per ridimensionare le pretese clericali, che fino a quel momento aveva sfruttato per il proprio interesse.

Appare, quindi, evidente, che l’educazione rappresenta, in questo contesto, un punto di vista privilegiato per verificare le differenze tra due visioni contrapposte del mondo, quelle dell’Illuminismo e del cattolicesimo, in quanto indaga sull’ideale di uomo, sul quale è basato tutto il loro impianto culturale e educativo.

L’EMERGERE DI UNA NUOVA CONCEZIONE DI UOMO

Nel XVIII secolo si rafforzò l’urgenza di aggiornare metodi e programmi di studio, dettata dalla volontà di sostituire il progetto educativo messo in pratica nei collegi con un nuovo ideale di formazione e di uomo, in molti casi radicalmente alternativo a quello allora esistente. Ciò comportò una graduale, ma profonda revisione dei modelli educativi precedenti, con il graduale superamento dell’identità tra istruzione ed educazione. Già con Locke si era verificato il recupero di un significato più genuino di educazione, nella misura in cui il filosofo inglese si poneva il problema di elaborare il disegno pedagogico del gentleman come “uomo nuovo”, funzionale ad una società relativamente più libera rispetto al passato e certamente economicamente più dinamica.
Perché avvenisse una più marcata distinzione tra istruzione ed educazione c’era insomma bisogno che si facesse largo una nuova idea di uomo. In particolare, seppur avversata dalle gerarchie ecclesiastiche, si affermò in primo luogo una diversa concezione delle facoltà cognitive dell’essere umano. Studi sull’origine delle idee come quelli di David Hume (Philosophical Essays concerning Human Understanding, 1748), Etienne Bonnot de Condillac (Essai sur l'origine des connaissances humaines, 1746; Traité des sensations, 1754) e Denis Diderot (Lettre sur les aveugles, 1749) affrancarono le scienze umane dall’innatismo, per individuare la sorgente della conoscenza, come già avevano suggerito gli empiristi, nell’esperienza e nelle capacità intellettive dell’individuo. A partire dalla fine del ‘600 si imposero un’epistemologia basata sulla natura, ovvero su ciò che era conoscibile attraverso l’esperienza, e il rifiuto delle spiegazioni rinchiuse entro le categorie teologiche e metafisiche.
La medicina, attraverso le innovative ricerche di Simon André Tissot, Jacques Ballexerd, Gerard Van Swieten e Herman Boerhaave, confermò a sua volta e diede ulteriore impulso alle ricerche empiriche sull’uomo e sui suoi meccanismi biologici e cognitivi anche se con modalità ancora estranee allo sperimentalismo positivistico del secondo ‘800. Per la prima volta fu posto l’accento, ad esempio, sulle differenze tra adulto e bambino e venne rivendicato il diritto dell’infanzia a essere considerata un’età con prerogative proprie, incomparabile con le altre fasi della vita dell’uomo.
Mentre la medicina infantile, progenitrice della pediatria, ridefiniva le caratteristiche della natura del bambino, in campo filosofico la psicologia, intesa come studio teorico della psiche umana, insegnava a considerare il bambino come una tabula rasa, dotato unicamente dei sensi per conoscere il mondo. Questa concezione dell’uomo e delle sue facoltà aprì nuove e inaspettate prospettive all’educazione. Il bambino, che nasceva privo di qualunque conoscenza, ma dotato dei sensi e della ragione, aveva bisogno di imparare a servirsene nel modo migliore. Quindi, prima di fornirgli un’istruzione, era compito degli adulti dotarlo degli strumenti per avvalersi delle sue capacità cognitive, necessarie a muovere i primi passi all’interno del contesto naturale e sociale. L’infanzia cominciò ad essere presentata come l’età in cui bisogna acquisire consapevolezza delle proprie risorse, per mezzo dell’attenzione e della guida dei genitori, oltre che come la fase della vita in cui si compiono le prime, fondamentali, esperienze.
Considerata non più come un’età imperfetta, ma come fase naturale della vita, l’infanzia cominciò a divenire oggetto di nuove attenzioni e di una tutela sino ad allora sconosciuta. Essa non costituiva più l’età della debolezza e dell’incompiutezza, ma una tappa imprescindibile per la formazione di un uomo completo. E per realizzarsi pienamente l’individuo doveva essere in grado sia di crescere in modo sano sul piano fisico e di integrarsi nel suo contesto sociale sia di migliorare con il suo contributo la vita di tutti i suoi simili e non solo la sua. La felicità del singolo finì così per essere legata strettamente, almeno dal punto di vista teorico, alla “pubblica felicità”.
Si trattò di un cambiamento di prospettiva che ebbe notevoli ricadute anche sul piano della riflessione pedagogica. Basti dire che, a differenza di quanto era avvenuto in precedenza, ogni trattato che si occupava di questioni educative, scientifiche o divulgative, doveva necessariamente prevedere una parte dedicata all’“educazione fisica” (da non confondere con l’attuale insegnamento della ginnastica) ovvero alle pratiche igieniche e di puericultura che la medicina stava rivelando essere indispensabili alla conservazione e allo sviluppo della prole.
Letterati più o meno noti, filosofi, insegnanti, uomini di chiesa e soprattutto medici scesero in campo per diffondere le scoperte della scienza illuminista a riguardo della nociva pratica del baliatico e per rivendicare i benefici effetti dell’allattamento materno, oltre che per mettere in guardia le donne da antiche quanto dolorose pratiche, quali l’uso di fasciature rigide per il contenimento dei bambini e la somministrazione di cibi indigesti, ritenute tradizionalmente benefiche. Era, infatti, ormai fuori discussione che la tutela della salute dei bambini costituiva la migliore garanzia di sopravvivenza e di crescita, oltre che la base di ogni altra forma di educazione dell’infanzia.
Anche il dibattito sull’“educazione intellettuale” o “scientifica” fu molto acceso e molto meno scontato rispetto ai decenni precedenti, quando la cultura classica la faceva da padrona. Per “educazione intellettuale”, nel ‘700 (e così ancora per tutta la prima metà dell’Ottocento), si intendevano i contenuti formali e disciplinari dell’istruzione da impartire ai ragazzi. Le proposte di Locke e di Fleury avevano ottenuto un largo seguito in tutta Europa e nuovi tipi di scuola erano sorti un po’ ovunque a fare concorrenza ai collegi. Ma ciò non bastò a innescare il ripensamento delle caratteristiche della scuola secondaria, ormai divenuta patrimonio sociale e dunque difficile da modificare.
Nelle scuole degli Ordini religiosi vigeva il più rigoroso rispetto della tradizione ed ogni velleità innovativa si era estinta pochi decenni dopo la loro fondazione. La capacità di rinnovamento che esse avevano saputo imprimere nel XVI secolo ai metodi d’insegnamento si spense gradualmente. I professori si limitavano a riprodurre in modo stereotipato il modello che avevano a loro volta imparato in quelle stesse scuole. Basta pensare, per esempio, alle resistenze che incontrarono all’interno del proprio ordine quei gesuiti che nel corso del ‘700 cercarono di promuovere una riforma della Ratio che tenesse conto degli sviluppi della cultura scientifica. La Compagnia di Gesù, al pari degli altri ordini insegnanti, avrebbe trovato la forza di rinnovare i propri metodi solo quando la progressiva secolarizzazione dei sistemi scolastici minacciò di escluderli per sempre dalle scuole.
Eppure non mancarono proposte innovative messe a punto da personaggi come il naturalista Leclerc de Buffon. Questi, seguendo le indicazioni della filosofia sensistica, al fine di rispettare i tempi e le modalità d’apprendimento dei bambini, suggerì di introdurre come materia di base lo studio empirico della “storia naturale”, ovvero la biologia, la botanica e la geografia astronomica.
Nella sua monumentale Storia naturale generale e particolare (pubblicata in 36 volumi tra il 1749 e il 1788), Buffon proponeva di creare in ogni città una sorta di museo, dove raccogliere e ordinare gli esemplari del maggior numero possibile di specie viventi, oltre a modelli che riproducessero il cosmo e i suoi componenti. Visite ripetute a questi musei avrebbero permesso a giovani ed adulti di imparare a conoscere il mondo, esercitando la capacità d’osservazione con minute descrizioni. Solo in un secondo tempo avrebbero dovuto essere impartite nozioni teoriche, volte a fornire un metodo di classificazione di semplice utilizzo. Era questo il modo, secondo il naturalista francese, di imparare a utilizzare il metodo di ricerca empirico, sfruttando la capacità dei bambini di apprendere agevolmente a partire dalla pratica.
Allo stesso modo, suscitò grande scalpore ma ebbe scarsa applicazione il tavolo tipografico dell’abate Louis Dumas, che era stato ideato proprio per consentire ai giovani discepoli di venire a contatto praticamente con la scrittura e la lettura, e non più attraverso lezioni teoriche o ripetitive sessioni di calligrafia. Si trattava di un’intuizione destinata ad essere ripresa due secoli più tardi (metà ‘900) con il progetto della “tipografia a scuola” dal pedagogista francese Célestin Freinet.
Solo con grande difficoltà e tra mille resistenze si fece largo l’uso della lingua volgare nella prima alfabetizzazione, tanto che molti insegnanti continuarono a impiegare il latino per avviare i bambini alla scrittura ancora nell’800. L’inadeguatezza di tale metodo d’insegnamento risulta ancora più evidente se si pensa che la lingua più parlata era spesso il dialetto e che, per questa ragione, i bambini dovevano compiere una duplice opera di traduzione, dal latino alla lingua nazionale e da questa al dialetto.
A livello di istruzione secondaria, il latino continuò, invece, a rappresentare la lingua di studio e di comunicazione per eccellenza. Le scienze esatte rimasero in genere marginali nei collegi anche se bisogna distinguere tra le resistenze dei classicisti ad oltranza (ad esempio i gesuiti) e le aperture di altri ordini religiosi (scolopi e barnabiti). In ogni caso, lo studio della matematica e della fisica restavano subordinati agli esercizi letterari e di composizione latina. I programmi scientifici erano inoltre rigorosamente passati al vaglio per evitare qualunque contaminazione di teorie reputate poco ortodosse (tra cui quelle newtoniane). Anche la storia, con la sola eccezione della storia sacra e antica, entrò con fatica nei curricula dei seminaria nobilium, portando con sé anche la geografia, entrambe guardate comunque con sospetto in quanto troppo legate alle questioni politiche.
Ancora più acceso fu il dibattito intorno all’ultima componente dell’educazione di Antico Regime, ovvero l’educazione religiosa e morale. Tradizionalmente la componente etica dell’educazione era quella reputata più importante, in quanto destina a formare il buon cristiano, prima ancora che il capo famiglia e il cittadino. In tal senso, l’istruzione morale coincideva con la vita cristiana, in quanto era comunemente accettato il fatto che spettasse alla religione il compito di plasmare l’animo del fanciullo e di guidare la vita delle comunità.
Nel corso del ‘700 si fece largo, prima timidamente poi con sempre maggiore forza, un’etica laica o, per dirla con gli autori dell’epoca, secolarizzata. In quest’ottica, compito dell’educazione morale era non tanto quello di insegnare i doveri nei confronti di Dio e della comunità dei cristiani, ma piuttosto nei confronti dei propri concittadini e dello Stato, al fine di garantire la “pubblica felicità”.
Il dibattito intorno all’etica pubblica e alla formazione del cittadino si protrasse sino ai nostri giorni, incentrandosi sul significato della categoria concettuale che oggi definiamo “laicità”. Una prima tesi la concepisce soprattutto in senso negativo, come assenza di qualsiasi dimensione religiosa nello spazio della vita pubblica. Le fedi religiose sarebbero un’esperienza del tutto privata e dunque da rinviare alla coltivazione nell’intimo della coscienza personale. Una seconda prospettiva concepisce invece la laicità in senso positivo, come uno spazio entro il quale le differenti visioni dell’esistenza umana (le diverse fedi, religiose e laiche) si confrontano e dialogano alla ricerca di soluzioni più appropriate per raggiungere le forme di convivenza più idonee.
Se guardato dal punto di vista scolastico, il dibattito sulla laicità ha aperto non soltanto il problema della funzione della religione (nella forma dell’insegnamento della dottrina cristiana e della storia sacra) nella vita scolastica. Essa ha aperto anche la strada a un’idea di educazione molto più elaborata e complessa di quella dei secoli precedenti che, come abbiamo visto, era sostanzialmente orientata dalla bussola dei valori religiosi. La questione educativa ha, per esempio, cominciato a intrecciarsi con le diverse ideologie che, a loro volta, rinviano a differenti concezioni filosofiche e religiose dell’uomo, della sua esistenza e del suo destino, nonché con i modelli sociali, economici e politici.
Un conto, ad esempio, è pensare l’educazione nella prospettiva di una società liberale e un altro conto è pensarla nell’ottica dello stato assoluto. Un conto è immaginare l’uomo come un semplice tassello produttivo dominato dalle leggi dell’economia e un altro conto è pensarlo come un individuo con la sua libertà e i suoi diritti. A partire, dunque, dal ‘700 la pedagogia, da semplice scienza del metodo (chiamata a organizzare in modo efficace l’insegnamento e il funzionamento della scuola), passò a interrogarsi sui fini educativi e sulla natura stessa dell’educazione dell’uomo.

Ultime modifiche: mercoledì, 22 gennaio 2014, 11:40