Dall’accettazione al rifiuto del diverso

Quando Platone delineò la sua città ideale, propose che gli eventuali figli malformati venissero rinchiusi in un luogo oscuro e separato, con la chiara intenzione di farli al più presto morire. Aristotele auspicava una legge dello Stato che proibisse esplicitamente alle famiglie di allevare figli handicappati, legge che, come risulta da Cicerone, era esplicitamente stabilita dal diritto romano nella quarta delle Dodici Tavole. Tristemente note sono la rupe Tarpea e il monte Taigeto, da cui, rispettivamente, i Romani e gli Spartani usavano o gettare i bambini nati deformi. Anche nell’antica Gerusalemme l’attenzione per gli handicappati non aveva connotazioni positive. “Taci tu, che sei nato tutto nei peccati”: le parole con le quali i teologi ebraici misero a tacere il cieco guarito da Gesù sono l’attestazione precisa della mentalità vigente, secondo cui la presenza del dolore era la prova della presenza del peccato.

Nel Medioevo, i bambini malformati venivano soppressi, il più delle volte, al momento della nascita (le levatrici avevano precise istruzioni al riguardo), e se sopravvivevano, era per un’esistenza che non aveva quasi nulla di umano. In questo periodo storico le profonde fobie nei confronti del diverso avevano libero sfogo nelle relazioni sociali: nell’immaginario collettivo la figura dello storpio veniva demonizzata come maledetto, anche se, tuttavia, ai deformi venivano a volte attribuiti poteri di veggenza, o comunque di contatto con il mondo ultraterreno, e spesso, nelle comunità rurali, il deficiente era pietosamente tollerato Coloro che avevano un aspetto particolarmente deforme, venivano esibiti nelle fiere e nelle feste paesane come mostri da ammirare dietro pagamento, come risulta da numerose fonti, tra cui un passo dei Saggi di Montaigne.

Negli ambienti popolari si protrasse oltre il tardo Medioevo l’idea che gli individui malformati nascessero da peccaminosi e inconfessati rapporti sessuali con animali, se non con lo stesso diavolo, celato sotto forma di bestia. In ogni caso, la Chiesa avvalorava la credenza che la nascita di un bambino storpio o menomato fosse imputabile a qualche colpa dei genitori e, dunque, interpretabile come segno di riprovazione divina. Ne conseguivano frequenti casi di infanticidio e di abbandono.

Nel periodo a cavallo tra Cinquecento e Seicento, la ragione divenne il tratto distintivo della civiltà. Questo nuovo atteggiamento escludeva coloro che non accettavano la ragion di Stato, la ratio normativa delle leggi e regole sociali, le ragioni della Chiesa, ed emarginava coloro che non erano in grado di esercitare la ragione perché non in età o non “in senno”. Per esempio, il fenomeno della possessione religiosa, che prima era rispettato, non è più ammissibile, piuttosto è sconcertante e sospetto, poiché può essere contagioso. Anche lo “scemo del villaggio” e il demente, non sono più tollerati come nel passato in quanto esseri innocenti o tramiti delle voci provenienti dall’aldilà.

La razionalità era soprattutto quella che presiedeva alle Leggi di Natura, che diventarono, quindi, oggetto di studio per conoscerle e definirle in modo chiaro e inequivocabile. L’opera del Creatore era sana e perfetta: i deformi venivano allora considerati, ancora più che nel passato, inaccettabili eccezioni, che insidiavano la razionale costruzione dell’edificio classificatorio cui mirava la mentalità Sei-Settecentesca. Era, infatti, profondamente sentita la necessità di comprendere il mondo e la vita, attribuendo definizioni, etichettando cose, individui ed eventi. L’essere umano non era esente da questa operazione; anzi, la specie umana era indubbiamente da considerarsi la più perfetta, vero e proprio coronamento della creazione, in quanto immagine e somiglianza di Dio. Dunque, erano sommamente fastidiose ed indisponenti le mostruosità presenti in alcuni esseri umani, che deformavano la perfezione del corpo, o che mostravano deficienze proprio nel massimo dono divino e suprema caratteristica distintiva dagli animali, cioè l’intelligenza

Ci si chiedeva come potevano essere state violate le leggi naturali, causando simili “errori”, ma le conoscenze scientifiche dell’uomo erano molto scarse ed inestricabilmente legate a concezioni di ordine metafisico-teologico-fiolosofico. Se si assistette ad un impetuoso sviluppo delle scienze in campi come la fisica, la chimica, l’ottica, le scienze naturali, soprattutto grazie al perfezionamento concomitante di strumenti di osservazione e alla sempre maggiore attività di carattere sperimentale, ciò non accadde in egual misura per la conoscenza dell’uomo. Le scienze mediche erano appena agli esordi, la fisiologia, l’anatomia, spesso non disponevano nemmeno della possibilità di procedere all’accrescimento delle proprie conoscenze tramite l’osservazione, la comparazione e l’attività sperimentale, per motivi di ordine religioso e ideologico. Inoltre, tra tutte le conoscenze relative all’uomo, quelle che riguardavano i processi generativi e procreativi erano certo le più arretrate. Nella mentalità corrente poi, le idee non erano chiare nemmeno a riguardo della connessione tra atto sessuale e concepimento, dato che l’esperienza mostrava come non fosse regolare il rapporto tra causa ed effetto. Ancora nel Seicento circolavano varie teorie derivate dalla medicina degli umori ed altre basate su antiche credenze e superstizioni, quando gli studiosi iniziarono a superare il ragionamento deduttivo e l’accettazione incondizionata di principi teologici e filosofici, per basarsi sulla osservazione e sperimentazione. Harvey (1578–1657), che aveva raggiunto notorietà e rispettabilità con le sue considerazioni sul flusso sanguigno, basate su vivisezioni di animali e legatura delle vene, scrisse nel 1628 di aver constatato personalmente nei polli la graduale evoluzione dell’embrione a partire da un piccolissimo seme. Swammerdam (1637-1680), che fornì contributi importanti alla conoscenza della fisiologia dei muscoli, dei nervi, del cuore e della circolazione sanguigna, nel 1667 collaborò con Van Horne (1621-1670) alle indagini sull'apparato genitale femminile, che portarono alla formulazione della teoria ovista; nel 1669 pubblicò una importante Historia insectorum generalis, prima in olandese e poi tradotta in latino, in cui dimostrò che il fenomeno della metamorfosi era una successione di stadi successivi in cui i diversi organi apparivano già preformati. Nella stessa occasione elaborò la teoria della preesistenza dei germi, o preformista dell’incastro dei germi, stabilito poi su basi filosofiche da Nicolas Malebranche (1638-1715) nel 1675. Secondo questa teoria, complicata da disquisizioni teologiche, quando Dio creò Eva, pose nelle sue ovaie e in quelle dei capostipiti femminili di ogni altro essere vivente destinato a comparire dall'inizio alla fine del mondo, anche la sua prole già preformata, in modo che al momento opportuno questi germi potessero crescere e svilupparsi sino a generare nuovi individui. A loro volta, i minuscoli individui contenuti nelle uova di Eva e delle capostipiti delle varie specie, avevano nelle loro ovaie già preformati i germi dei loro figli, e così via, concludendo che nelle ovaie della prima donna era già preformata l'intera umanità. 
Con la scoperta degli spermatozoi - noti all'epoca come “animalcoli spermatici” o “vermi spermatici” - da parte del microscopista olandese Leeuwenhoek, nacque una variante della teoria della preesistenza dei germi che poneva negli spermatozoi anziché nelle uova il principio della vita, lasciando intatta la struttura dell'incastro.          
Si radicò la convinzione che, avendo ciascun individuo di ogni specie in sé il germe della propria riproduzione, ogni specie permane immutabile tale quale fu originariamente creata. La scienza dava dunque la certezza che le eccezioni, le difformità, non erano altro che mostruosità, in quanto non aveva alcun fondamento pensare ad un “fallimento morfologico” della Natura, o di possibili errori di interpretazione delle sue leggi. L’indagine sugli eventi o sugli agenti che dunque dovevano incidere sul corretto sviluppo dell’embrione, diedero un nuovo impulso all’interesse per la cosiddetta teratologia, ossia la scienza delle anomalie.

 

La scienza e il Grande Internamento

Nell’Età della Ragione e poi dei Lumi, sebbene questione più spinosa fosse la ricerca delle cause che consentissero di spiegare l’esistenza di riprovevoli eccezioni, a cui non si riusciva a dare una chiara classificazione, rimaneva irrisolto il problema della presenza di esseri diversi, anormali e anomali e del modo in cui si poteva affrontare le loro specificità per ovviare agli inconvenienti che essi provocavano a se stessi e agli altri.

Già all’inizio dell’età moderna, le amministrazioni civili avevano aperto istituti in cui si dava ricovero ai bisognosi, cioè tutti coloro che non erano in grado di dare il proprio contributo alla società e che avrebbero quindi potuto esserle di peso. Il valenziano Luis Vives, nel suo trattato De subventione Pauperorum del 1526, definisce gli ospedali come case in cui si alimentavano e curavano gli infermi, ma anche dove si educavano bambini, si rinchiudevano i folli e in cui passavano la loro vita i ciechi . 

Quando nel Seicento il potere regio, la cultura scientifica e l’opera moralizzatrice della Chiesa, nel tentativo di razionalizzare e disciplinare la collettività sulla base di norme uniformi di riferimento, convennero che il deforme, l’inutile menomato e il pericoloso folle, erano fonte di turbamento, iniziò una risposta di carattere reclusivo e segregativo che mirava a consentire la creazione di una società policé . Ha inizio nel 1656 in Francia il cosiddetto “Grande Internamento” di sbandati, criminali, folli, mendichi, inabili al lavoro, tutti accomunati come socialmente pericolosi, che si diffuse rapidamente in tutta Europa e che mostra la confusione allora esistente tra le diverse “imputazioni” di asocialità. I diversi, da sempre rigettati ai margini della società con epiteti infamanti, o addirittura con segni visibili quali abiti particolari o veri e propri marchi a fuoco sulla pelle, diventano esemplari della disumanità, della sragione, della amoralità e della irreligiosità .

Senza dubbio, in un epoca in cui la scienza era sempre più chiamata a dare spiegazioni e risposte, se non rimedi, la presenza più inquietante era quella della follia: la mancanza delle capacità di far uso della ragione, ciò che più di ogni altra cosa caratterizza l’uomo, quando oltretutto si constatava in un individuo la perfezione fisica, era un dato che spaventava. Inoltre, l’impotenza della ragione nello spiegare la non-ragione, decisamente provocava sconcerto .

Foucault, in La Storia della follia, del 1961, mostra come verso la metà del XVII secolo la follia cessò di essere un simbolo escatologico dei confini del mondo, dell'uomo e della morte, e come la Nave dei Folli, che ossessionava l'immaginazione popolare nel Rinascimento e con cui l'Occidente pre-moderno esorcizzava la follia allontanando i propri pazzi, diviene un lugubre ospedale . Alle soglie dell'età classica (in senso francese corrispondente ai secoli XVII e XVIII), l'Europa trasforma i lebbrosari da lungo abbandonati in case di internamento. Foucault si pone di conseguenza due interrogativi: anzitutto si domanda quali forze sociali attive in tutta Europa produssero un così improvviso intervento sui poveri, e, in secondo luogo, quale sistema di classificazione ha permesso di unificare tipi così diversi all'interno di un'unica categoria.

Foucault individua come evento storico di grande rilevanza la fondazione, per decreto regio dell'Hôpital Général nel 1656: dal quel momento un cospicuo gruppo di edifici parigini vennero unificati e destinati all'assistenza dei poveri, dei folli, dei senza tetto. L'editto del re stabiliva che tutti costoro dovevano essere ospitati, nutriti e, in generale, assistiti. Benché i medici avessero ricevuto l'incarico di visitare periodicamente le diverse case di internamento, Foucault mette chiaramente in evidenza che esse non erano istituzioni propriamente mediche. Si trattava di luoghi dove folli, vagabondi e ribelli venivano messi tutti insieme, erano una sorta di entità amministrativa dotata di poteri autonomi, che aveva diritto di giudicare senza appello e di applicare le sue leggi all’interno dei propri confini: nessun fine psicoterapeutico, l'unico fine era la soppressione della differenza . 

Foucault, nel suo libro, elenca le condizioni che resero possibile e necessaria l'apparizione delle case di internamento. Innanzitutto il lavoro, valore principale della nascente borghesia, considerato come imperativo sia morale che sociale. Nello statuto dell'Hôpital Général venivano indicati i pericoli che la mendicità e l'ozio rappresentavano per la città. Ma mentre in passato durante i periodi di grande disoccupazione la città si proteggeva dai vagabondi mettendo delle guardie alle sue porte, ora erigeva delle case di internamento all'interno delle sue mura. "Il disoccupato non è più scacciato o punito; lo si prende a carico, a spese della nazione ma a scapito della sua libertà individuale" . Questo legame tra benessere dell'individuo e controllo amministrativo dello stato, è il risultato di pressioni economiche e sociali. Così, "in tutta Europa l'internamento ha lo stesso significato, almeno se lo si considera nella sua origine. Esso costituisce una delle risposte fornite dal XVII secolo ad una crisi economica che colpisce tutto il mondo occidentale" .

Il folle viene anche rinchiuso per la sua pericolosità. Non c’è ancora, all’inizio del Grande Internamento, una nozione scientifica di follia e nel descrivere i folli la confusione è ancora grande con gli amorali, i libertini, i miscredenti, i sifilitici, i tentati suicidi, gli isterici e gli ebeti. La follia è disordine morale, incapacità di dominio su se stessi, quindi imputabile allo stesso soggetto; ed è identificabile soprattutto in seguito ai suoi effetti: delitti, atti impudichi, danni sul lavoro, inaffidabilità e pratica di azioni intollerabili .

Nel XVIII secolo, la pericolosa situazione igienica regnante negli istituti di internamento iniziò ad essere percepita come intollerabile dall’opinione pubblica. Nei ceti superiori, essendovi ormai una consapevolezza diffusa che alcune turbe dell’anima e della mente potevano essere considerate curabili, numerose persone riuscirono ad accettare il “disturbo” in quanto dato razionalizzabile, confessandolo. La frequente insorgenza di tensioni nervose, fisime, insofferenze, ipocondrie, vapori, isterie, ecc.(per richiamare i termini in uso allora), veniva ricondotta a cause di ordine fisico organico, quali intoppi nel flusso degli umori, problemi del flusso sanguigno o carenze nella secrezione da parte della bile e del fegato, a cause di ordine psichico interiore e a cause di ordine sociale e ambientale. L’ambiente cioè condizionava con influssi negativi gli individui, in quanto si riconosceva la società, non solo come prodotto della civiltà, ma anche come condensato di errori, superstizioni, false credenze, illusioni, pregiudizi, dogmatismi che determinano l’uomo impedendogli a volte un corretto uso della capacità razionale .

Si auspicò allora un ritorno alla natura, la ricerca di un ambiente temperante in piena campagna; nacque il gusto dei paesaggi agresti e della vita semplice per contrasto con la vita urbana e mondana che corrompe la sensibilità. Anche la musica veniva evocata per il suo effetto terapeutico. Jean-Jacques Rousseau, con la sua vita e i suoi scritti, primo fra tutti le Confessioni, reinterpretò tutta la critica illuministica alla società, che a suo parere era troppo intellettualistica e razionalistica, per indirizzare maggiormente l’attenzione verso l’interiorità individuale. Riabilitando l’educazione del cuore, l’innocenza, l’ignoranza come non opposta a saggezza, la spontaneità e la modestia, mirava a ricostruire nell’ideale di vita semplice l’uomo naturale, che riflette su se stesso, sul mondo, e suoi reciproci rapporti, avendo una lucida consapevolezza delle costrizioni sociali, ma anche delle proprie responsabilità individuali, per non scaricare le proprie mancanze e le proprie colpe .

 

La fine del Grande Internamento

Ancora alla vigilia del moto rivoluzionario, permaneva incertezza nelle classificazioni. Gli internati deboli di mente, dementi, deboli di spirito soggetti ad eccessi di follia, furiosi, epilettici nelle “case coatte” di Parigi erano definiti ugualmente come alienati e persisteva una spiacevole coabitazione tra “deboli” e “furiosi”. La separazione dei folli dai criminali e dagli indigenti iniziò solo dopo la Rivoluzione francese in seguito a riforme psichiatriche sollecitate dal rapporto del 1790 di La Rochefoucault Liancourt all’Assemblea Nazionale, che si presentava come una vera e propria denuncia dello stato di abbandono e di promiscuità in cui si trovavano i reclusi negli ospizi .

Secondo Foucault non si trattava di un semplice progresso in senso umanitario del modo di trattare l'altro, né tantomeno esso avanzava sotto l'egida della scienza. Foucault gli attribuisce due cause dirette. Dapprima vi fu una protesta di alcuni esponenti della nobiltà e alcuni intellettuali che, incarcerati per crimine, richiamarono l'attenzione sulla mescolanza di folli e criminali: essi chiedevano di non essere mescolati ai folli per timore di perdere anch'essi l'uso della ragione. La presenza dei folli nelle case di internamento appariva quindi un'ingiustizia; ma per gli altri . In secondo luogo si stava verificando un mutamento della sensibilità sociale e anche dei rapporti economici. La povertà, che era stata vista come un vizio e una minaccia per il corpo sociale, veniva ora vista come un vantaggio nascosto ma essenziale per la nazione: i poveri avrebbero accettato di lavorare anche per bassi salari, e non abbisognavano di un gran dispendio di risorse. Nacque così l'idea che la popolazione costituisse una importante risorsa economica e sociale nella formazione della ricchezza, e che pertanto dovesse essere presa in considerazione, organizzata e resa produttiva. L'internamento diventò così un "grossolano errore" e uno "sbaglio economico". L'internamento generale venne abolito e sostituito da un internamento più scientifico e specifico. Quanto ai folli, si avvertiva ormai la necessità che essi fossero liberati dalle loro catene e riportati alla normalità.

Negli edifici di internamento furono i medici stessi a richiedere il riorientamento di quelle istituzioni come luoghi di cura più che di carcerazione . Tra questi troviamo Philippe Pinel, che venne nominato nel 1793, in piena Repubblica giacobina, direttore dell’ospizio di Bicêtre, il più importante di Francia. Pinel si prefiggeva, innanzitutto, di porre fine a confusioni, affidando solo ad un medico la definizione degli internati, di rendere igienico l’ambiente, di attrezzare degnamente l’istituto di ricovero come un vero e proprio ospedale, e contestualmente di ottenere il riconoscimento di non punibilità dei dementi quindi il loro riconoscimento come uomini liberi non reclusi, e di porre fine alle “terapie repressive” come le docce gelate e le frustate .

Pinel aveva meditato a fondo sugli scritti di Condillac, riprendendo dal filosofo sensista le sue riflessioni sul fatto che la pazzia consiste principalmente in uno squilibrio nell’attività di associazione delle idee, e l’idiozia nella sua deficienza. In seguito aveva frequentato assiduamente il salotto di Mme Helvetius, stringendo rapporti con l’ambiente degli idéologues, tra cui, in particolare, Cabanis e Destutt de Tracy. Così, nel suo Traité sur la manie pubblicato nel 1800, tradotto in spagnolo nel 1804 e poi ampliato nel 1809 come Trattato medico filosofico sull’alienazione mentale, attribuisce la genesi dei disordini mentali a vari favori concorrenti come l’ereditarietà, fattori fisici, genere di vita e l’educazione ricevuta. Pubblicò anche una Nosografia filosofica e un trattato di medicina clinica; la sua opera poi continuata da Esquirol, è considerata di grande importanza nella storia della medicina, della psichiatria, della psicologia, per il suo tentativo di inferire dalla conoscenza degli alienati dati per la comprensione dell’uomo normale. La sua opera è indubbiamente anche una tappa fondamentale nell’evoluzione di una considerazione nuova dei “diversi” in generale, e in particolare da quelli affetti da qualche lesione .

L'internamento generale venne abolito e sostituito da un internamento più scientifico e specifico. Quanto ai folli, si avvertiva ormai la necessità che essi fossero liberati dalle loro catene e ricondotti alla normalità.

Attraverso l'istituzione dell'asilo, il folle – ora paziente posto sotto l'autorità del discorso psichiatrico – è sottoposto ad un processo profondamente psicologico «dal quale non ci si libera se non [...] con il rimorso». I folli devono essere messi nella condizione di riconoscere che hanno trasgredito le norme etiche universali dell'umanità. Devono essere riportati ad una riaffermazione delle norme sociali riconosciute, tramite una serie di tecniche di ri-addestramento, di trasformazione della coscienza, e tramite una disciplina che operi sia sul corpo che sulla mente. Tra queste, l'estorsione sistematica della confessione che, secondo Foucault, svolge un ruolo centrale nella genealogia del soggetto moderno, come viene delineato a grandi tratti nella Storia della sessualità.

Pian piano, intrappolata nella rete delle scienze che si vanno formando e grazie alle opere ed al lavoro di Samuel Tuke in Inghilterra e di Philippe Pinel in Francia, la follia assume uno statuto sempre più specifico: mentre prima veniva trattata come fenomeno globale che riguardava sia l’anima sia il corpo – i rimedi utilizzati andavano sempre a toccare il corpo, proprio perché non era ancora nata una concezione psicologica della malattia – ora essa comincia ad abitare sempre più solo l’interiorità dell’anima: nasce a poco a poco l’homo psycologicus:

«E fu a partire da quel momento che la follia cessò di essere considerata come un fenomeno globale che colpiva al tempo stesso, attraverso l’immaginazione e il delirio, il corpo e l’anima. Nel nuovo mondo manicomiale, in quel mondo morale del castigo, la follia diventa un fatto che concerne essenzialmente l’anima umana, la sua colpa e la sua libertà; essa si inscrive oramai nella dimensione dell’interiorità; in tal modo, per la prima volta nel mondo occidentale, la follia si ritroverà a godere di uno statuto, di una struttura e di un significato psicologici. [...] La scoperta di ciò che va sotto il nome di psicologia della follia non è altro che il risultato delle operazioni con cui la follia era stata investita. Senza il sadismo moralizzatore, con il quale la filantropia del XIX secolo ha circondato la follia sotto le ipocrite apparenze di una "liberazione", questa psicologia non esisterebbe affatto».

L'emergere della figura del personaggio medico costituisce, quindi, una tappa fondamentale: è attraverso la figura del medico che la follia diventa malattia mentale, ed è perciò integrata, in quanto oggetto di studio, nel campo della medicina; tuttavia nella Storia della follia è sottolineata soprattutto l’importanza attribuita all'integrità morale della figura del medico piuttosto che il suo status scientifico: non è come scienziato che egli acquista autorità nell'asilo, ma come saggio, come garanzia giuridica e morale.

 

Psicoanalisi e follia

La tappa successiva nella storia della ragione e della follia è rappresentata per Foucault dal lavoro di Freud. «Nei riguardi del medico, Freud ha fatto scivolare tutte le strutture che Pinel e Tuke avevano preparato nell’internamento. Ha liberato il malato da quell’esistenza nell’asilo alla quale l’avevano condannato i suoi “liberatori” ma non l’ha liberato da ciò che vi era di essenziale in quell’esistenza; ne ha raggruppato i poteri, e li ha tesi al massimo, annodandoli tra le mani del medico; […] il medico, come figura alienante, resta la chiave della psicanalisi» Il padre della psicoanalisi deve, infatti, la sua importanza, secondo Foucault, al fatto di aver isolato e posto in rilievo, in quanto oggetto di studio scientifico, il rapporto medico-paziente, inteso come la componente essenziale del trattamento della malattia mentale. «Freud ha demistificato tutte le altre strutture dell'asilo: ha abolito il silenzio e lo sguardo, ha cancellato l'autoriconoscersi della follia, ha fatto tacere tutte le istanze di condanna. Ma in compenso ha sfruttato la struttura che avvolge il personaggio medico; ha ingrandito le sue virtù da taumaturgo, preparando uno statuto quasi divino alla sua onnipotenza». Malgrado il decisivo superamento della mentalità dell'asilo Freud mantenne un fondamentale tratto autoritario affidando la persona mentalmente disturbata al fascino prestigioso del medico dell'anima.

 

La liberazione degli alienati : “gigantesco imprigionamento morale”

 Foucault conclude la sua Storia della follia con alcuni riferimenti estremamente densi, rivolti ad una forma fondamentale di alterità che sta al di là della portata della ragione e della scienza e che, seppure in modo misterioso, sembra essere all'origine della loro stessa possibilità. Poeti come Artaud, Hölderlin e Nerval, pittori come Van Gogh e Goya, lo stesso Nietzsche sono in qualche modo sfuggiti al gigantesco imprigionamento morale e hanno, secondo Foucault, intravisto questa esperienza fondamentale della sragione, la quale esige di superare i limiti imposti dalla società.

Nell’epoca moderna assistiamo alla nascita di un processo di riassorbimento sempre più ampio di ciò che prima costituiva l’escluso, l’Altro assoluto, l’incomprensibile e l’incontrollabile, ma questo non avviene nell’ordine della riconciliazione di ciò che era stato separato, bensì nell’ordine del dominio e della vittoria di una parte sull’altra. Ora anche la follia viene fatta rientrare nello statuto dell’oggettività scientifica, e quindi non è più esclusa in quanto disordine incontenibile, ma riassorbita nelle maglie della ragione come suo oggetto, non più come suo opposto, come sua rivale e speculare nemica. Per questo Foucault potrà ipotizzare un futuro prossimo in cui la follia, nel suo essere trasgressione, essenza tragica dell’uomo, rischierà di scomparire quasi del tutto, lasciando di sé soltanto una traccia sfumata e silenziosa; assorbita nella monovalenza di una ragione ormai completamente trionfante:

«Forse, un giorno, non sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia. [...] Artaud apparterrà alla base del nostro linguaggio, e non alla sua rottura; le nevrosi, alle forme costitutive (e non alle deviazioni) della nostra società. Tutto quel che noi oggi proviamo relativamente alla modalità del limite, o della estraneità, o del non sopportabile, avrà raggiunto la serenità del positivo. [...] Quale sarà il supporto tecnico di questo mutamento? La possibilità per la medicina di padroneggiare la malattia mentale come una qualsiasi affezione organica? [...] O altre modificazioni ancora, nessuna delle quali forse sopprimerà realmente la malattia mentale, ma che avranno tutte il significato di cancellare dalla nostra cultura l’immagine della follia? So bene che avanzando quest’ultima ipotesi io contesto ciò che è comunemente ammesso: che i progressi della medicina potranno far scomparire completamente la malattia mentale, come già la lebbra e la tubercolosi; ma so che una cosa sopravviverà, e cioè il rapporto tra l’uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte.»

Ultime modifiche: mercoledì, 22 gennaio 2014, 11:40