“It is certain, in any case, that ignorance, allied with power, is the most ferocious enemy justice can have.” James Baldwin


Disporre di conoscenze e competenze antropologiche è quanto mai fondamentale in un mondo sociale che si scopre “vulnerabile” in termini identitari – l’ascesa dei vari sovranismi e nazionalismi testimonia d’altra parte l’irrigidimento delle categorie del “Noi” e degli “Altri” che stridono con la costruzione di una società aperta e multiculturale – e profondamente violento nel riprodurre disuguaglianze e discriminazioni, rispetto alle quali i movimenti di resistenza (come Black Lives Matter o Non una di meno) si impegnano a ricordarci che le forme locali di razzismo e sessismo sono ancora oggi diffuse e capillari dentro le nostre stesse comunità. Il Corso di Introduzione all’Antropologia culturale intende offrire strumenti di analisi e di critica sociale per comprendere un mondo confuso perché sempre più complesso.

L’insegnamento comprende una parte introduttiva di carattere storico e una sessione pluri-tematica in cui si declineranno diversi argomenti al fine di aiutare i partecipanti a comprendere quali sono stati e quali sono oggi i terreni di conoscenza e di ricerca-azione in cui si è spesa nei decenni la disciplina.

Per quanto concerne la prima parte di introduzione storica, i contenuti offerti consentiranno agli studenti e alle studentesse di familiarizzarsi con la nascita dell’antropologia, conoscendone i suoi “miti ed eroi”, secondo la fortunata espressione che Ugo Fabietti utilizza per dipingere la figura del giovane Malinowski alle prese con l’osservazione partecipante in un piccolo arcipelago della Melanesia. Era il 1914. Studiare il contesto in cui nasce l’etnografia moderna permetterà di aprire un dibattito intorno a questo periodo “maschio-centrico” della disciplina, in cui iniziano a consolidarsi scuole di pensiero nord-americane, da un lato, ed europee, dall’altro. Dopo un’analisi dei maggiori limiti introdotti dall’evoluzionismo nelle scienze sociali e dalla cosiddetta “antropologia da tavolino” o “da veranda” – quell’antropologia, cioè, fondata su lavori di seconda mano e sempre indiretti – si dedicherà un approfondimento ai lavori che hanno permesso l’emergere di questa nuova metodologia fondata sulla ricerca di campo, a partire dalle seguenti due monografie: Argonauti del Pacifico Occidentale, pubblicato nel 1922 da Bronislaw Malinowski una volta tornato in Inghilterra, e L’adolescenza in Samoa del 1928 a firma di Margaret Mead, una delle più note antropologhe statunitensi.

Accanto alle nozioni teoriche di “valore” e “prestigio”, così fondamentali nel lavoro di Malinowski intorno allo scambio simbolico di oggetti rituali nell’arcipelago delle Trobriand, e a quelle di “genere”, “educazione” e “sessualità” di cui parla la Mead nel corso delle sue interviste con giovani ragazze samoane, si analizzeranno i metodi della ricerca e, più in generale, il significato del “campo” in antropologia. Secondo la celebre formula malinowskiana, quanto come antropologi e antropologhe cerchiamo di fare nel corso della ricerca è cogliere la presa che la vita ha sui propri interlocutori: sulle persone con le quali viviamo per un periodo sufficientemente lungo che coincide con il tempo stesso della ricerca. Riuscire in questo compito può dischiudere ad una comprensione più ampia di alcuni “fatti sociali totali” di una data società (in termini di economia, diritto, psicologia, religione, ecc.). Le studentesse e gli studenti verranno accompagnati in questa parte del Corso a conoscere anche il dramma storico dell’antropologia di quei primi anni del ‘900, che hanno visto la sua nascita concomitante all’instaurarsi o al consolidarsi dei governi coloniali, a seguito di una espansione imperiale di annessione e sfruttamento di terre e popolazioni.

Prima di passare alla sessione tematica, è questa peculiare connivenza tra conoscenza e colonialismo che verrà analizzata attraverso alcuni esempi, quali la storia degli zoo umani in Europa: durante queste grandi manifestazioni circensi i nativi colonizzati, portati in Europa o negli Stati Uniti da commercianti privi di scrupoli che li vendevano insieme agli animali selvatici, erano costretti ad esibirsi al cospetto di un pubblico che conobbe in questo modo una “differenza culturale” già incatenata, imprigionata, ridicolizzata, silenziata. Esplorare questi spazi di incontro con l’Alterità – all’epoca costruita come assoluta e radicalmente altra come se non fosse proprio pensabile riconoscersi negli Altri come propri simili – aiuterà i partecipanti a elaborare meglio nozioni teoriche quali quelle di “etnocentrismo” e “relativismo culturale”.

L’antropologia, come scienza sociale sorta all’interno della cultura occidentale assieme al colonialismo, ne ha voluto rappresentare il suo rovescio, affermandosi come sapere antirazzista: essa è tra tutte le scienze umane, scriveva Paolo Caruso nell’Introduzione al libro Razza e storia e altri studi di antropologia di Claude Lévi-Strauss, “la più intimamente solidale al risveglio” politico, economico, culturale dei mondi altri.

Le sessioni tematiche saranno l’occasione per introdurre studentesse e studenti allo studio di questi mondi altri: a partire dalla nozione di persona, dalla parentela e delle strutture familiari, dalla salute e della malattia si procederà via via a studiare le credenze e il mondo magico-religioso, i riti di passaggio e di iniziazione, l’organizzazione politica di una data società fino ai processi di migrazione, acculturazione, integrazione. Grazie al contributo di materiale video-etnografico si potranno accompagnare i partecipanti verso una prima conoscenza dei principali assi tematici di cui oggi si occupa l’antropologia culturale.

L’insegnamento si chiuderà intorno all’effervescenza tutt’altro che inedita del razzismo oggi, figlio di politiche discriminatorie precise, e all’analisi delle forme di apartheid sociale e simbolico in cui tutti ci troviamo, nostro malgrado, immersi fino a soffocarne. Disporre di strumenti di analisi della società attuale – di quello che il noto filosofo francese Étienne Balibar ha definito in Noi cittadini d'Europa un “mondo apartheid” pensando proprio all’Europa contemporanea e alle forme di discriminazione europea, tutte giocate su quelle terre di mezzo che sono le frontiere nazionali – significa riconoscere i processi di “epistemicidio”: cioè tutte quelle sistematiche pratiche di violenza contro i sistemi di pensiero, contro le forme marginali di conoscenze e contro tutti quei saperi minori che rischiano di non avere più diritto di parola; accanto ai genocidi, alle profonde discriminazioni, alle lacerazioni del tessuto sociale a danno di popolazioni indigene, di minoranze etniche, di migranti e rifugiati, della classe operaia e subalterna delle società opulente, ecc. Il discorso intorno alla violenza razziale prenderà avvio dalla conversazione radiofonica del 1970 tra la celebre antropologa americana Margaret Mead e il poeta e scrittore afroamericano James Baldwin (A rap on race), nella versione italiana del libro Dibattito sulla razza.