Educazione, politica e religione tra Restaurazione e Unità


In Italia, il tema dell'educazione si intrecciò con altre questioni di carattere sociale, economico e ideologico, che contribuirono a rendere particolarmente acceso, oltre che prolifico, il dibattito pedagogico tra la Restaurazione e l'Unità d'Italia. Non a caso, è proprio a quel periodo che si può far risalire, dopo l’anticipo della trattatistica illuministica, la prima grande stagione della cultura pedagogica italiana.

Già a partire dalla seconda metà del XVIII secolo era emersa la necessità di prestare maggiore attenzione, anche attraverso il rinnovamento e il rafforzamento dei metodi e la diffusione delle istituzioni educative, alle condizioni di vita del popolo. Per di più, come ha sottolineato lo storico inglese Eric Hobsbawm nell'Età della Rivoluzione, l'esperienza rivoluzionaria aveva segnato, seppur quasi esclusivamente da un punto di vista teorico, un inevitabile punto di riferimento per quanti decidevano di occuparsi di istruzione elementare.

Anche per questo motivo, ovvero per i significati politici che gli eventi successivi al 1789 evocavano, il dibattito inerente alla diffusione della scolarizzazione, era destinato a creare profonde fratture: a fronte di accorati appelli e reiterati tentativi per favorire la diffusione dell'istruzione, continuarono a essere registrati altrettanto accesi inviti a controllare l'accesso all'alfabetizzazione, specialmente a quella primaria, in base a presunte ragioni di ordine sociale ed economico. Tuttavia, queste posizioni di retroguardia avrebbero trovato sempre meno sostenitori in un'Italia in cui gli esordi della rivoluzione industriale e le trasformazioni produttive e sociali ad essa connesse costituivano la prova più convincente del bisogno di scolarizzazione.

Gli stessi cambiamenti determinati dalle innovazioni in campo produttivo ed economico originarono non pochi mutamenti nella struttura della società italiana, concentrando la produzione nelle prime manifatture, spingendo le popolazioni più povere delle campagne a spostarsi in città per trovare un'occupazione, aggravando e ampliando il problema del lavoro minorile, rendendo superate le tradizionali modalità di trasmissione delle competenze professionali, sino ad allora considerate come parte del patrimonio familiare e passate di padre in figlio.

L'istruzione non aveva più soltanto il compito di educare il cittadino, ma anche quello di istruire il lavoratore, il quale pure era chiamato a contribuire al benessere della patria.

La situazione fu resa ancora più problematica dal complicarsi dei rapporti tra gli Stati pre-unitari e la Chiesa. Infatti, il binomio trono-altare, che era uscito rinforzato dalla tempesta rivoluzionaria e napoleonica, entrò ben presto in crisi, di fronte alle pretese di autonomia dei poteri pubblici. A partire dagli anni Trenta, ovvero con lo scemare dell'ondata reazionaria determinata dal crollo napoleonico, in tutta Europa le nazioni cominciarono a rivendicare il controllo esclusivo delle scuole di ogni ordine e grado.

Anche l'Italia si trovò ad affrontare il duplice problema dell'educazione e delle iniziative scolastiche con lo stato di sviluppo della cultura popolare da un lato e con la tradizione cattolica e l'organizzazione ecclesiastica dall'altro. Il modo di affrontare questi rapporti e le diverse soluzioni prospettate spinsero i principali esponenti del dibattito politico, educativo e pedagogico verso posizioni diverse, definendo categorie contrapposte note ora come progressisti e conservatori, ora come laici e cattolici, liberali e democratici, moderati e radicali, neo-illuministi e spiritualisti.

Un primo schieramento, che si rifaceva in parte alla tradizione politico-giuridica dell’Illuminismo italiano di Cesare Beccaria, Pietro e Alessandro Verri, Gaetano Filangieri, e in parte alla lezione di Gian Battista Vico, tentò di sviluppare un modello di educazione nazionale affrancato dalla tradizione cattolica e dall'autorità della Chiesa. Fra i maggiori esponenti di questa corrente politica, culturale e pedagogica vanno ricordati, oltre ai già citati Vincenzo Cuoco e Gian Domenico Romagnosi, Melchiorre Gioia (1767-1829) e su posizioni democratiche, Giovan Pietro Vieusseux (1779-1863), Raffaello Lambruschini (1788-1873), Carlo Cattaneo (1801-1869), Enrico Mayer (1802-1877) e Giuseppe Mazzini.

Essi perseguirono in via generale una strategia volta ad emancipare la società italiana dall'influenza religiosa ed ecclesiastica, spesso con forti connotazioni atee e anticlericali. Questa prospettiva educativa andava perseguita non solo attraverso le riforme istituzionali e legislative, ma anche mediante l'educazione civile e morale del singolo cittadino, così da renderlo membro cosciente del più vasto corpo sociale. Di fronte all'inerzia delle masse popolari, essi affidarono alla borghesia illuminata il compito di farsi promotrice di un'azione emancipatrice e di operare una mediazione con i ceti popolari per aiutarli, anche e soprattutto attraverso l'alfabetizzazione e una più ampia scolarizzazione, ad inserirsi in modo ordinato nella società e nella cultura moderna.

Le loro proposte ricche di suggestione, ma anche venate da scarso senso della realtà e qualche volta addirittura utopistiche, si scontrarono con l'arretratezza economica e culturale di masse popolari nella stragrande maggioranza contadine, legate alla tradizione cattolica e ad un clero ostile ad ogni forma di modernizzazione e per lo più diffidente nei confronti della scolarizzazione di massa.

Il fallimento, o almeno il ridimensionamento di questa operazione, perseguita soprattutto negli anni '40 e '50 dalle componenti più avanzate della borghesia italiana, portò alla radicalizzazione dello scontro con la Chiesa cattolica e al successivo ripiegamento delle strategie educative e dei modelli scolastici su posizioni socialmente più arretrate. Su questa linea si sarebbe poi attestata la scuola italiana dopo l'Unità nazionale.

I principali esponenti dello spiritualismo italiano recarono al movimento nazionale un più o meno significativo contributo in termini di pensiero e di impegno attivo e nello stesso tempo concepirono tentativi di riforma della Chiesa per renderla più vicina e sensibile alle nuove realtà sociali, culturali e agli ideali nazionali. In particolare, si distinsero per il generoso sforzo di riconciliazione tra la tradizione cattolica e le conquiste della modernità e il riconoscimento delle libertà individuali. Essi perseguirono lo scopo di fare della tradizione religiosa il momento di avvio di una strategia di incivilimento dei ceti popolari. L'unità morale realizzata intorno ai valori cattolici avrebbe dovuto rappresentare un motivo forte per l'auspicato rinnovamento civile e politico. Tentativi, anche in questo caso, non sempre riusciti e che procurarono ad alcuni di loro (il caso più eclatante fu sicuramente quello di Rosmini) diversi contrasti con le gerarchie ecclesiastiche.

Al di fuori del confronto politico, culturale e pedagogico tra reazionari e liberali, tra moderati e democratici, furono inoltre attivi molti educatori, in gran parte fondatori o appartenenti a congregazioni religiose maschili e femminili, il cui unico scopo era quello di operare per il bene materiale dei ceti più poveri, in particolare dei bambini, dei giovani e delle fanciulle, ma anche per la loro redenzione morale attraverso l’educazione ispirata ai princìpi della religione, senza deflettere da una piena adesione alla tradizione cattolica e all'autorità morale e dottrinale della Chiesa.

Se in questi protagonisti della vita educativa fu in genere modesto o inesistente l'apporto specificamente pedagogico (nel senso dell'elaborazione di una vera e propria teoria), essi segnarono una grande pagina di presenza a fianco dei ceti popolari, dai fratelli veneziani Antonio Angelo e Marco Antonio Cavanis, al veronese don Nicola Mazza, dai bresciani Luca Passi e Lodovico Pavoni agli scolopi Ottavio Assarotti e Tommaso Pendola e ai torinesi Giovanni Bosco e Leonardo Murialdo.

Ultime modifiche: mercoledì, 22 gennaio 2014, 11:40